Pensando a un gruppo di
bambini di 11-12 anni, che gioca a calcio nei vari tornei esordienti, ci
vengono in mente immagini tra loro in antitesi: una rappresentata da quel
bellissimo film "Il gladiatore" di Ridley Scott, dove nell'arena
lottano e combattono i gladiatori, strumenti indifesi, utilizzati ad uso e
consumo dei potenti; l’altra un oratorio dove un gruppo indemoniato di bambini
si sfida nell’ennesima interminabile partita che nel loro immaginario vale una
finale di Champions League.
Questa traslazione fantastica
vuole porre l'accento, su una realtà che sovente non è a misura di bambino.
Senza fare dissertazioni di natura sociologica che non ci competono,
l'influenza che determina il calcio d'élite sull'ambiente che vive intorno
all'evento sportivo giovanile , i genitori in primis, produce a volte,
soprattutto se il fenomeno non è mediato opportunamente, qualche problema di
carattere psicologico.
La mistificazione di una realtà,
costruita troppe volte per soddisfare bisogni e attenuare frustrazioni tipici
del mondo degli adulti, porta i bambini ad assumere comportamenti innaturali
(proteste contro l'arbitro, violenze contro l'avversario, non accettazione
delle scelte tecniche dell'allenatore) che conducono a dei disagi, a una
mancanza di serenità e infine ad un rallentamento anche del processo di
formazione tecnica.
Inoltre le sollecitazioni di
natura tecnica, riprodotta su comportamenti e procedure didattiche tipiche del
calcio d’èlite, contribuiscono a generare aspettative di prestazione.
I nostri giovani avrebbero
bisogno viceversa di misurare le proprie qualità in un ambiente libero da
condizionamenti esterni, dove la guida esperta del tecnico viene valorizzata ed
apprezzata per il continuo interesse che suscita,per la quantità di entusiasmo
che genera, dove spontaneità e libertà di sbagliare sono accettati come
passaggio obbligato per migliorarsi socialmente e calcisticamente.
Solo così si potrà favorire un
accesso non traumatico a una dimensione calcistica legata più alla performance
e al risultato agonistico.
Sicuramente questa fascia d’età,
soprattutto nel secondo anno d’attività, rappresenta l’inizio di un travaglio
che investe la sfera psico-fisica del giovane, attraverso mutamenti che avranno
ripercussioni significative sulla qualità delle prestazioni.
Il tecnico dovrà relazionarsi
spesso con bambini motoriamente in difficoltà, dovrà predisporre delle fasi di
recupero tecnico, e avere cura di attendere coloro che non avendo avuto un
precoce sviluppo mostrano nei confronti dei più maturi difficoltà a
relazionarsi agonisticamente.
Non può essere il risultato
agonistico la variabile che condiziona il nostro comportamento didattico e la
gestione della squadra, perché se così fosse daremmo spazio maggiormente a quei
bambini che per esempio, come abbiamo sottolineato precedentemente, avendo
un’età biologica e una maturità fisica anticipata ci garantiscono buoni rendimenti
agonistici. Facendo così trascureremmo quei ragazzi che seppur dotati di buone
predisposizioni calcistiche incontrano difficoltà ad esprimerle in gara, in
relazione a difficoltà di ordine prevalentemente fisico.