Pochi bambini
diventeranno calciatori professionisti, ma tutti saranno uomini. L’importanza
di essere prima punto di riferimento e poi allenatori.
Il gioco del calcio attuale, anche nel settore giovanile,
è vittima della fretta di ottenere il risultato.
Una frase che sentiamo dire spesso. Come è certo esistano
tecnici che si esprimono grosso modo così… “A mio avviso insegnare a fare
un lancio lungo dalla difesa per entrare in area utilizzando le capacità del
mio attaccante, molto veloce, è insegnare a raggiungere il risultato di
squadra…” Bisogna dire basta.
L’errata costruzione del percorso tecnico ed educativo
del giovane atleta è spesso la causa degli insuccessi dei nostri calciatori.
Insuccessi che generano caduta di aspettative, sogni infranti e abbandono
precoce dello sport tanto amato…
Nell’approccio di molti tecnici c’è un vizio di fondo, il
confronto tra il calcio di settore giovanile e quello visto in tv, che diventa
modello un da seguire.
Si pensa troppo spesso allo sport dei bambini
equiparandolo a quello degli adulti. Di conseguenza, la costruzione delle
attività proposte ai piccoli durante la settimana rispecchia “pericolosamente”
le mirabolanti azioni ammirate in Barcellona-Real Madrid la sera precedente.
Osserviamo in continuazione allenamenti durante i quali
gli istruttori insegnano, negli Esordienti, le sovrapposizioni di Gareth Bale
su Cristiano Ronaldo e ai Pulcini a praticare un fitto tiki-taka.
Ma questo è allenare? Siamo sicuri di conoscere i nostri
piccoli calciatori? Ci siamo mai interrogati sul fatto che le attività proposte
siano adeguate alla loro età?
ASCOLTIAMO I BAMBINI
La programmazione della formazione di un bambino che non
ne rispetti la naturale evoluzione psico-fisica è purtroppo fenomeno frequente
nel nostro sport.
Nel calcio, in genere, esiste la tendenza a resistere ai
cambiamenti e ad adottare la strada più conosciuta.
Qual è il rischio? Diventare autoreferenziali nel
percorso educativo sportivo, non porsi in ascolto del giovane e delle sue
esigenze fisiche e relazionali. Il calciatore, soprattutto dai 6 ai 12 anni,
non è una cavia bensì l’oggetto dell’azione sportiva.
È lui stesso che dà senso al ruolo di allenatore e
manifesta durante ogni allenamento o partita i propri bisogni. Per bisogno
intendiamo ciò che una persona deve possedere per crescere, svilupparsi,
condurre una vita soddisfacente e godere di buona salute.
È evidente quindi
quanto sia importante poter contestualizzare anche nel calcio i bisogni che il
bambino può avere verso se stesso, l’allenatore e il gruppo.
È un ragionamento scontato? Forse.
IL RUOLO DEL MISTER
Ma l’allenatore è spesso succube del proprio narcisismo o
delle richieste dei dirigenti e dimentica quanto sia importante proteggere le
azioni educative connaturate nel suo ruolo. Svolgere l’attività di mister fra i
giovani è un’azione complessa che comporta molto più che la semplice
trasmissione di competenze tecnico-motorie. Il mister deve fare i conti con
competenze di tipo pedagogico e questioni etiche.
L’azione di allenare necessita di andare oltre
l’iper-specializzazione per arrivare all’azione pedagogica nella sua globalità,
dove al centro c’è la persona e non l’atto sportivo.
Al centro, quindi,
ci deve essere il bambino non misurato solo sulla performance ma come individuo
nella sua complessità e cioè alunno, figlio e attore di tutte le attività che
caratterizzano la sua vita.
Sono tutte componenti importanti da “tenere insieme” al
fine di poter comprendere i disagi, le preoccupazioni e i sentimenti dei
giovani atleti.
Capita, durante corsi di formazione, che alcuni
allenatori mi apostrofino dicendo: “Ma io non faccio l’educatore o lo
psicologo, io alleno!”
A questi ricordo: pochi bambini che alleniamo
diventeranno calciatori, tutti sicuramente diventeranno uomini.
Fonte: allfootball.it
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