lunedì 13 aprile 2015

L’ALLENATORE DEVE EDUCARE?


Pochi bambini diventeranno calciatori professionisti, ma tutti saranno uomini. L’importanza di essere prima punto di riferimento e poi allenatori.

Il gioco del calcio attuale, anche nel settore giovanile, è vittima della fretta di ottenere il risultato.
Una frase che sentiamo dire spesso. Come è certo esistano tecnici che si esprimono grosso modo così…  “A mio avviso insegnare a fare un lancio lungo dalla difesa per entrare in area utilizzando le capacità del mio attaccante, molto veloce, è insegnare a raggiungere il risultato di squadra…” Bisogna dire basta.
L’errata costruzione del percorso tecnico ed educativo del giovane atleta è spesso la causa degli insuccessi dei nostri calciatori. Insuccessi che generano caduta di aspettative, sogni infranti e abbandono precoce dello sport tanto amato…
Nell’approccio di molti tecnici c’è un vizio di fondo, il confronto tra il calcio di settore giovanile e quello visto in tv, che diventa modello un da seguire.
Si pensa troppo spesso allo sport dei bambini equiparandolo a quello degli adulti. Di conseguenza, la costruzione delle attività proposte ai piccoli durante la settimana rispecchia “pericolosamente” le mirabolanti azioni ammirate in Barcellona-Real Madrid la sera precedente.
Osserviamo in continuazione allenamenti durante i quali gli istruttori insegnano, negli Esordienti, le sovrapposizioni di Gareth Bale su Cristiano Ronaldo e ai Pulcini a praticare un fitto tiki-taka.
Ma questo è allenare? Siamo sicuri di conoscere i nostri piccoli calciatori? Ci siamo mai interrogati sul fatto che le attività proposte siano adeguate alla loro età?

ASCOLTIAMO I BAMBINI
La programmazione della formazione di un bambino che non ne rispetti la naturale evoluzione psico-fisica è purtroppo fenomeno frequente nel nostro sport.
Nel calcio, in genere, esiste la tendenza a resistere ai cambiamenti e ad adottare la strada più conosciuta.
Qual è il rischio? Diventare autoreferenziali nel percorso educativo sportivo, non porsi in ascolto del giovane e delle sue esigenze fisiche e relazionali. Il calciatore, soprattutto dai 6 ai 12 anni, non è una cavia bensì l’oggetto dell’azione sportiva.
È lui stesso che dà senso al ruolo di allenatore e manifesta durante ogni allenamento o partita i propri bisogni. Per bisogno intendiamo ciò che una persona deve possedere per crescere, svilupparsi, condurre una vita soddisfacente e godere di buona salute.
 È evidente quindi quanto sia importante poter contestualizzare anche nel calcio i bisogni che il bambino può avere verso se stesso, l’allenatore e il gruppo.
È un ragionamento scontato? Forse.

IL RUOLO DEL MISTER
Ma l’allenatore è spesso succube del proprio narcisismo o delle richieste dei dirigenti e dimentica quanto sia importante proteggere le azioni educative connaturate nel suo ruolo. Svolgere l’attività di mister fra i giovani è un’azione complessa che comporta molto più che la semplice trasmissione di competenze tecnico-motorie. Il mister deve fare i conti con competenze di tipo pedagogico e questioni etiche.
L’azione di allenare necessita di andare oltre l’iper-specializzazione per arrivare all’azione pedagogica nella sua globalità, dove al centro c’è la persona e non l’atto sportivo.
 Al centro, quindi, ci deve essere il bambino non misurato solo sulla performance ma come individuo nella sua complessità e cioè alunno, figlio e attore di tutte le attività che caratterizzano la sua vita.
Sono tutte componenti importanti da “tenere insieme” al fine di poter comprendere i disagi, le preoccupazioni e i sentimenti dei giovani atleti.
Capita, durante corsi di formazione, che alcuni allenatori mi apostrofino dicendo: “Ma io non faccio l’educatore o lo psicologo, io alleno!”
A questi ricordo: pochi bambini che alleniamo diventeranno calciatori, tutti sicuramente diventeranno uomini.

Fonte: allfootball.it

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.